Fosco Mariani GNOSI DELLE FANFOLE (1978)


Fosco Maraini
GNOSI DELLE FANFOLE (1978)


Ingiustamente poco nota questa raccolta di poesie di Fosco Maraini, orientalista alpinista e scrittore italiano, offre interessanti spunti di riflessione sul funzionamento, o meglio sulla ricezione, della lingua stessa. Il processo compositivo di questi versi, denominato dallo stesso autore con l'appellativo di metasemantica, si concentra tutto sul suono della parola, sulla phoné, inventando di sana pianta un termine dopo l'altro. Non neologismi, solo suoni a cui non fa, ne deve far capo, alcun referente. La poesia di Maraini rompe il giocattolo linguistico, mostra come il senso non sia tanto nelle parole – accostando continuamente termini inventati a termini noti – ma nella sintassi, nel modo in cui queste si combinano fra di loro. E l'effetto emotivo di una parola è il suo suono, non il referente a cui rimanda. Prendiamo ad esempio Una giornata ad urlapicchio, fa così
Ci son dei giorni smègi e lombidiosi
col cielo dago e un fònzero gongruto
ci son meriggi gnàlidi e budriosi
che plògidan sul mondo infragelluto,
ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi
un giorno tutto gnacchi e timparlini,
le nuvole buzzillano, i bernecchi
ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini;
è un giorno per le vànvere, un festicchio
un giorno carmidioso e prodigiero,
è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio
in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.
Le parole inventate rispondono alla precisa logica d'esser riconoscibili come facenti parte del lessico italiano, e poco importa che sia una fantasticheria. Il modo in cui le lettere, o per meglio dire, i grafemi si combinano fra di loro è quello tipico dell'italiano. Non ci sono delle q a fine di parola per dire, e quelle che terminano per consonante sono dei tipici troncamenti.
Nel romanzo Il Pendolo di Foucault (1988) di Umberto Eco c'è un personaggio eccitato dal poter sedere di fronte ai primi personal computer dell'epoca, che chiama affettuosamente Abulafia, e l'usa per modificare attraverso istruzioni in Basic, frammenti di testo come in una sorta di moderna temurah. Davanti al monitor scrive
Abu fa ora una cosa: batto questa frase, do ordine ad Abu di cambiare ciascun "a" con "akka" e ciascun "o" con "ulla", e ne verrà fuori un brano quasi finnico.
E si incanta innanzi al risultato una volta avviato il programma

Akkabu fakka ullarakka unakka cullasakka: bakkattulla questakka frakkase, dulla ullardine akkad akkabu di cakkambiakkare ciakkascun "akka" cullan "akkakkakka" e ciakkascun "ulla" cullan "ullakka", e ne verrà fuullari un brakkanulla quakkasi finniculla.

Pare davvero finnico. Ovviamente se si prova a leggere questa seconda frase il gioco è presto scoperto, ma se si resta all'impatto per così dire grafico delle parole il senso del trovarsi di fronte a qualcosa di quasi finnico è evidente, è mostra come l'uso e la ripetizione di alcune lettere ci rendano subito chiaro verso quale lingua è più probabile trovarsi di fronte. Difatti l'allitterzione della k è molto frequente nel finlandese, mentre fra i quindici casi esistenti nella lingua, l'adessivo, usato in genere per esprimere prossimità, ha come desinza -lla. Tornando a Maraini il fatto che le nuvole buzzillano rimanda dritto ad un ipotetico verbo, buzzillare, per cui ancora non c'è traccia su alcun dizionario. L'atmosfera triste è presentata dalla s- dell'immaginato aggettivo smègi, e alla riga quinta troviamo quel ma introduttivo, che si aspetta sin dall'inizio essendo la poesia principiata da un "ci son" che implica da subito che ci son giorni che non.
Perfette costruzioni formali, incassonate per esser narrative, per far attendere uno svolgimento. E su esse fiumi di parole-suono create ad uopo. Stando al fonosimbolismo i suoni di vocali e consonanti evocano di per sé sensazioni e stati d’animo particolari. Così le vocali “a” ed “e”, per esempio, hanno un suono aperto che rimanda a sensazioni calme e luminose, le «Chiare, fresche e dolci acque» (F. Petrarca), a men di non
obiettare che siano i significati di dette parole a rimandar alla calma bisogna pensare che è proprio l'immagine della calma che le parole volevano descrivere ad aver fatto in modo che il nomoteta di queste abbia usato proprio certe vocali invece che altre. Mentre la “o” e la “u” hanno un suono grave, che suggerisce a stati d’animo cupi, come «volaron sul ponte che cupo sonò» (A. Manzoni). Ora, è ovvio che questo vale per l'italiano e non è una regola generale altrimenti ne verrebbe che sarebbero da considerare cupi i versi del poeta sardo Agniru Canu (1878-1966) che nella sua Pascha d'amori scrive con evidente gioia nella variante sarda del dialetto sassarese «Li tó basgi, chi piazeri! / Nudda v’è cussì lichittu, / canti vólthi t’aggiu dittu / chi sò dòzzi che lu méri!».
Il genio di Maraini sta nel aver compreso ciò e saperlo piegare ad una poesia che non vuole mostrare qualcosa, d'altronde la maggioranza dei termini usati non rimandano a nulla, ma far sentire e immaginare un micromondo tutto mentale, tutto fatto di suono.

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