Roland Barthes L'IMPERO DEI SEGNI (1970)


Roland Barthes
L'IMPERO DEI SEGNI (1970)
trad. Marco Vallora 1984


Il Giappone che immagina Barthes è il luogo dell’alterità. E probabilmente è il luogo che per molti coincide con l’arcipelago delle grandi quattro isole, sovvertendo il distico «la mappa non è il territorio» di Alfred Korzybski. Tutto ciò che si può rimproverare al testo è un uso improprio del satori e un’abbondanza del termine nulla, e sue sinonimie, sino a risultare stucchevole per la cadenza prevedibile con cui appaiono. Il gioco del popolo fittizio a cui Roland accede attraverso scatti fotografici in b/n resta un godimento per le riflessioni che ne trae, è una sorta di viaggio di Gulliver al contrario dove vengono prima le immagini del testo, anzi per rimanere giapponesi è della Bella storia di Shidoken, narrata da Hiraga Gennai, il rovescio. Il bestiario di uomini dalle forme bizzarre è sostituito da veri uomini e una vera città, rivisitati dal genio europeo che si dice ammaliato dalla minuzia dei gesti laddove «i modi giapponesi ci sembrano minuti (mentre la nostra mitologia esalta la grandezza, la vastità, la larghezza, l’apertura) non è tanto a causa della loro misura, ma è perché ogni oggetto, ogni gesto, anche il più libero, il più mobile sembra incorniciato». È un luogo dove le vie senza nomi per gli indirizzi costringono ad «orientarsi non con il libro, l’indirizzo, ma con lo stesso camminare a piedi, con la vista, l’abitudine, l’esperienza: ogni scoperta è insieme intensa e fragile, non potrà che essere ritrovata in noi che grazie al ricordo di quella traccia che ha lasciato in noi»; è un mondo quello del Giappone fantasmato dalle sue stesse mappe dove il centro della sua capitale, ma potrebbe essere qualsiasi altra città, non viene mai raggiunto obbligando «la circolazione ad una deviazione perpetua» nelle agorà di caffè e passeggiate. È un mondo dove le slot-machine, lì chiamate pachinko, non promettono qualcosa, dove il gioco si sa che è gioco ed è una finzione serissima  dove non si può che «correggere il caso che in anticipo e con un colpo solo», dove agli occhi di Barthes «non c’è nulla di sessuale (nel Giappone, in questo paese che io chiamo il Giappone, la sessualità sta nel sesso, non altrove. Negli Stati Uniti è il contrario: il sesso è dovunque, tranne che nella sessualità)». Non importa quanto i dati della realtà lo contraddicono, anche questo è un gioco e anche questo è serissimo, e nelle mani del francese per costruire questo mondo sono passate solo scatti di vita e nessuna pittura shunga coi suoi mostri che attaccano ragazze solo vagamento contrariate. È un mondo che è esattamente l’impronta in negativo del nostro e da cui è possibile ricostruire il nostro in cui «Topologicamente, l’uomo occidentale si ritiene doppio, composto da un’esteriorità sociale, fittizia, falsa, e da un’interiorità individuale, autentica» da cui ne viene che «essere scortesi significa essere veri, questo suggerisce conseguentemente la morale» mentre di là, su quell’isola l’inchino rituale è un esercizio del «vuoto», il leitmotiv stucchevole che riappare e riappare nella mente di Barthes davanti ogni iconografia d’Oriente. È un mondo dove dal teatro dei burattini si apprende sgomento, e non lo stupore dei bambini, perché a differenza del nostro il Bunraku non nasconde chi anima i legni levigati sino a forma antropomorfa. Non c’è qualcuno che muove i fili «Il fondamento della nostra arte teatrale consiste in realtà molto più in un’illusione di totalità [...] La marionetta occidentale, anch’essa (lo si vede bene con Pulcinella) è un sottoprodotto fantasmatico: come riduzione» mentre il Bunraku ricerca la sua astrazione sensibile; nell’Impero dei segni non c’è qualcosa che necessiti essere interpretato, così come gli haiku descritti come visione senza commento «questo è così — dice l’haiku — è tale». Il senso qui viene sospeso «raccomandando di non essere mai preda delle quattro proposizioni seguenti: questo è A, —questo non è A, — questo è ad un tempo A e non-A, — questo non è né A né non-A» qui tutto pare essere «una immensa pratica votata a sospendere il linguaggio», e su questo stato di a-linguaggio si basa l’intero testo. So che questo Giappone non esiste, eppure non so immaginarlo diversamente.

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