José Ortega y Gasset MISERIA E SPLENDORE DELLA TRADUZIONE (1937)
José Ortega y Gasset
MISERIA E SPLENDORE DELLA TRADUZIONE (1937)
Traduzione di Claudia Razza, 2001
«La natura ha dotato ogni animale di un programma di atti che, semplicemente, si possono eseguire in modo soddisfacente. Ecco perché è così raro che un animale sia triste. Solo in quelli superiori - nel cane, nel cavallo - si avverte qualcosa come la tristezza, ed è proprio allora che ci sembrano più vicini a noi, più umano. [...] Normalmente gli animali sono felici. La nostra sorte invece è opposta . Gli uomini girano sempre malinconici, maniaci e frenetici, malmenati da tutti questi morbi che Ippocrate chiamò divini. E la ragione di ciò è che le faccende umane sono irrealizzabili. Il destino - il privilegio e l’onore - dell’uomo è di non ottenere mai ciò che si propone e di essere pura pura pretesa, vivente utopia. Parte sempre verso il fallimento, e prima di entrare nella lotta porta già la tempia ferita.»
Lo spagnolo, esule argentino, l’europeo errante di volta in volta tedesco francese o portoghese; questo signore, questo tale Ortega discorre a Parigi con la platea del Collège de France sul tema della traduzione e pubblica in forma di articoli sulla rivista La Naciòn di Buenos Aires gli incontri, anni dopo quindi trasposti a metà degli anni Ottanta in italiano e secondariamente riportati in un’ottima edizione Duemila, quella che ho sottomano, per Il Melangolo. Avendo vissuto sulla propria pelle il problema della comprensione, lui può parlare della traduzione, del suo mito irrealizzabile, perché imperfetto, perché «quando parliamo siamo umili ostaggi del passato» perché ciò che diciamo per esprimere noi, in realtà parla d’altro. Prendiamo la frase il sole nasce a Oriente: vorrebbe dire che un essere di sesso maschile ‘salta fuori’ da un luogo, un puro accidenti dato che «La struttura della frase indoeuropea trascrive un’interpretazione della realtà, per la quale ciò che accade nel mondo è sempre l’azione di un agente sessuato». Normalmente però, non sarà questa l’eccezione con cui verrà intesa la frase.
La lingua è presentata come un sistema che permette agli individui di capirsi senza previo accordo, le esternazioni verbali sono frutto - o dovrebbero almeno esserlo - di scelte oculate dacché «scrivendo rinunciamo a dire», parlando ci permettiamo di tacere su questioni che consideriamo senza tema possano essere fraintese. Per dirla con Heidegger «parlare e dire sono in sé un tradurre» sia perché rinunciamo per poter dire qualcosa a dire, perché dire tutto sarebbe indicibile, sia perché convertiamo i nostri pensieri in parole sonanti. Le suggestioni, o meglio i ricordi associati alle parole dette segnano però già un primo displuvio fra chi ascolta e chi narra. Cosa immaginerebbe uno spagnolo, si chiede Ortega, davanti alla parola tedesca wald (bosco) se fosse essa tradotta nella sua lingua? Certo non la foresta nera di Friburgo, ma i paesaggi boschivi della Andalusia. Mi permetterei di suggerire, che basterebbe indicare all’interlocutore la provenienza della traduzione, forse.
Citando Condillac solo la scienza è una «lingua ben fatta», coi suoi caratteri di significati previamente concordati e privi di incertezze, una sorta di volapuk da apprendere dopo una lingua madre e quindi per sempre distante da questa. «Uno scrittore tradotto ci risulterà sempre un po’ sciocco» perché il suo compito da artista è stato quello di erodere le abitudini del linguaggio in cui scriveva, e come potrebbe dopo una trasposizione da lingua a lingua rimanere intatta l’erosione?
Secondo Goethe ci sono tre cose che inducono alla traduzione: il gusto per l’esotico, il desiderio di immergersi in un mondo altro con tutta la volontà di comprenderlo, e il semplice gusto di soddisfare un pubblico che non vuole sforzarsi di capire. Una buona traduzione dovrebbe forse allora mostrarsi arida, perché resti visibile la distanza dei due mondi insiti nelle due lingue. Oppure, per usare la più pratica divisione di Schleiermacher ci sono due modi soli per tradurre: portare l’autore verso il lettore o portare il lettore all’autore. Secondo Ortega la prima è una traduzione impropria.
Dato che «ogni traduzione è sempre una interpretazione» (Gadamer) è richiesta al traduttore la medesima creatività dell’autore, dell’autore del testo originario che, scrivendo nel tentativo di interpretare le proprie intuizioni andò oltre l’ovvietà del linguaggio comune alla sua comunità, rinnovando quindi il linguaggio pubblico. Dentro uno stile espressivo è innestato uno stile di pensiero e compito del traduttore è trovare queste fili per portarli nella propria lingua. Sarà un lavoro utopico quale è il destino dell’uomo.
.
Commenti
Posta un commento