Gusty Herrigel LO ZEN E L’ARTE DI DISPORRE FIORI (1958)
Gusty Herrigel
LO ZEN E L’ARTE DI DISPORRE FIORI (1958)
Traduzione di Lucia Corradini
Nella favola del Piccolo Principe si dice che l’essenziale è invisibile agli occhi, la signora Herrigel si limita invece a dire «non è possibile esprimere l’essenziale e ci si deve limitare a circoscriverlo con perifrasi». Possiamo almeno vederlo. Lo sfarzo di repliche e contraddizioni che convivono nella loro vastità, questa è la Natura. Riuscire a - per usare una metafora adatta ai fiori, tema dell’ikebana - cogliere, o più propriamente schematizzare una sua essenza senza in questo atto lasciare apparire il punto di vista di chi lo compie, questo è Zen.
Implicitamente, e per nostra fortuna, sottende esista una obiettività e che questa sia trasmissibile. La signora Herrigel l’ha appresa da un noto Maestro locale in «una stanza arredata all’occidentale» durante i suoi anni di soggiorno in Giappone. A quei tempi le città affollate presero a funzionare, ingranaggio di uomini dalla vite affettate, tutti specializzati in un compito, a un maggior tempo privato gettato fra le mille offerte dei negozi e dei mestieranti dell’intrattentimento fece seguito la frenesia. L’arte dell’ikebana iniziava a smarrirsi, si preparava già a diventare una cartolina di se stessa. Le campagne avevano inventato lunghi rituali con cui trascorrere il tempo e dare uno scopo al suo trascorrere. Siamo tutti volpi di Saint-Exupéry, penso questo.
Nelle mura private riverberano gli echi degli «edifici di piante concepiti dai monaci indiani per essere collocati come offerta ne templi» che attraverso la Corea portarono il buddhismo in Giappone.
«Verso la fine del XIV secolo e nel XV, epoca della massima diffusione della cerimonia del tè» si diffuse l’arte dei fiori.
La nicchia murale (tokonoma) nelle case da tè, e quindi poi nelle case private, era un retaggio dei monasteri Zen a cui le case si rifacevano, riproponendone il loro stile monacale e raccolta. Dentro l’incasso del tokonoma, sta l’ikebana, la composizione ordinata di fiori recisi ma non strappati, a farle da contraltare il kakemono, il dipinto di un paesaggio. La cerimonia dei fiori è così descritta: «l’ospite deve raccogliere in meditazione davanti al kakemono (il rotolo dipinto) appeso nel tokonoma (nicchia murale); quindi deve contemplare intensamente la composizione di fiori [...] Se il dipinto rappresenta un paesaggio di montagna, per la composizione il padrone di casa avrà scelto un ramo di pino e un fiore montano [...] il padrone di casa invita l’ospite a realizzare a sua volta una composizione di fiori [...] predispone tutto il necessario. Porta ramoscelli e svariati fiori dallo stelo, più o meno lungo, il kubari indispensabile per sostenere le piante, un paio di forbici e un piccolo telo di cotone». Il kubari è una forcella che ha la funzione di tenere in piedi la composizione di tronchi, rami, fogliame di ogni tipo, canne, erbe, etc. Generalmente questa è fatta di tre ramoscelli, accuratamente scelti, il più lungo rappresenta il Cielo (shin) il medio l’Uomo (so) e il più corto la Terra (gyo). Questa concezione ternaria ha origine nel buddhismo «Questa struttura esprime il senso profondo delle leggi che regolano l’Universo. Poiché il numero tre è il primo numero della creazione [...] ci si pone immediatamente al centro del Ternario [...] Essendo asimmetrico, il principio ternario permette l’azione reciproca della pienezza e del vuoto, dello sbocciare della vita e del suo dissolversi».
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