Colette PER UN ERBARIO (1947)
Colette
PER UN ERBARIO (1947)
trad. Maurizio Ferrara 2002
«Con lo stesso gusto miope e barocco che governa il sentimento amoroso, in quanto è esigente e insieme si accontenta di poco», così far parlare i fiori, così Colette muove la penna davanti ai mazzetti inviati per lei dal suo editore per agitarle qualcosa nella testa e poi il polso, se in mano stringe un bastoncino inchiostrato. Però forse ha scritto tutto battendo a macchina, non so. L’edizione è impreziosita, anzi correggo: bilanciata, da splendide litografie del XV e XVIII secolo, che pare rendano i fiori pietre o cristalli, forse perché i mazzetti dei fiorai Occidentali non conoscono il rigore dell’ikebana e bisogna cercar questo altrove, nel tentato rigore delle classificazioni ad esempio. C’è un editore che invia mazzi di rose, una scrittrice che cerca i suoi significati in mezzo a vecchi erbari apprendendo il fiore dal suo disegno, e poi c’è il testo gonfio di un lessico muto, o che assordisce, i mancati botanici. «Tranne il grande aconito, una scilla, un lupino, una nigella, la veronica piccola quercia, la lobelia e il convolvolo che trionfa di tutti i blu» così apre le danze la descrizione dell’Iris in uno stroboscopio di rimandi lapislazzuli — vorrei poter vedere tutti quei fiori che mi tocca immaginare dal suono che prova a fissarli nei dizionari — e poi con distrazione, senza mai alcun preavviso, iniziano brevi racconti dove il fiore non è protagonista ma lo strumento che permette il carosello di parole che ci ruotano attorno; ad esempio apprendiamo che l’orchidea è velenosa dal racconto che vede Colette mandare giù «Quella goccia, traslucida e rappresa» che viene fuori dal fiore, dono fattole dalla figlia a cui rimprovera bonariamente se non poteva prima chiedere al fiorista il nome di siffatto mostro «Nell’attesa degli spasimi che mi prometteva». A volte tutto ruota attorno al fiore, quale invece è il caso dell’Iris che «si bagna i piedi nei piccoli canali di Bagatelle, si unisce alle cugine, le tigridie, accalorate ed effemire. Ha sei petali, tre lingue distinte e strette, tre altre larghe, un po’ sporche di giallo — il fegato probabilmente — e viene considerato blu grazie all’unanimità di un mucchio di persone che non capiscono niente del colore blu». Dai fiori sbocciano le rêverie, rigorosamente sessuate, il Tulipano si ricorda attraverso una poesia di Théophile Gautier per cui si dice fatto alla maniera di un vaso cinese e Colette corre a correggere che si sbaglia e il vaso cinese pare più una donna nuda, e decapitata, e di averne visti alcuni così grandi da poterci dentro nascondere l’amante; oppure c’è la Gardenia che si sveglia puntuale alle sei per emanare un «febbrile e muto discorso. Un fiore d’arancio immaginario, un prugnolo cresciuto in un’ora, sembra che si uniscano in me, per la perdizione delle anime e dei corpi. L’ingenua si muta in capra, l’amante distratta si accalora e fugge — ma non da sola! — l’incolto si avventura in una scienza che gli insegno». Mi abbandono alle parole dedicate per il lackee e il pothos, o forse solo alla sua rappresentazione duplicata da una lastra di pietra calcarea (o di zinco o di alluminio), sulla quale era stato direttamente eseguito o trasportato il disegno che Colette dice immaginato: «Mi muovo fra i petali numerati, gli stami disarticolati, i germogli piacevolmente sessuali e le radici come criniere. Non imparo niente, contemplo».
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