Paul Watzlawick, John Weakland, Richard Fisch Change (1974)

Paul Watzlawick, John Weakland, Richard Fisch
Change (1974)

traduzione di Massimo Ferretti


Durante la Seconda Guerra Mondiale il matematico Norbert Wiener e l'ingegnere Julian Bigelow si trovarono a risolvere il problema dalla necessità di lanciare un proiettile non direttamente su un bersaglio, dal momento che questo era dotato di elevata velocità, ma in un punto antecedente la traiettoria in modo tale che l'aereo e il proiettile giungessero infine ad incontrarsi. Dato che l'aereo poteva cambiare direzione in maniera casuale anche se non del tutto arbitraria, era  necessario un strumento di previsione della posizione dell'areo. Questo puntamento doveva continuamente essere corretto mediante un meccanismo di retroazione (dall'inglese feedback) che riceveva informazioni sul reale comportamento dell'aereo nemico. Nel corso di questo progetto furono ravvisate alcune similitudine con il comportamento umano nella soluzione di problemi di orientamento.

Paul Watzlawick (Villach, 25 luglio 1921 – Palo Alto, 31 marzo 2007) psicologo e filosofo austriaco naturalizzato statunitense, eminente esponente della statunitense Scuola di Palo Alto nonché seguace del costruttivismo, dalla sua formazione psicoanalitica junghiana successivamente tra i fondatori e tra i più importanti esponenti dell’approccio sistemico, in questo libro riprende dalla cibernetica il concetto di retroazione, ovvero di equilibro interno di un sistema, e lo accosta alla teoria dei gruppi ponendo le regole per inserire un elemento in una certa classe una questione sistemica. Dato che «il raggruppamento di cose è un’operazione basilare e indispensabile per percepire e concettualizzare la realtà» intravede nel principio di retroazione la funzione che non permette di modificare una situazione mentale – laddove gli elementi noti siano già raggruppati in classi chiuse – proponendo per lo più il semplice dialogo come strumento per superare una impasse attraverso soluzioni paradossali e per certi versi simili alla pratica dei koan Zen ma ben più spiccio «l’approccio che descrive non è teleologico, non è basato sulla convinzione che esista una normalità ultima che i terapeuti in qualità di terapeuti conoscono per esperienza e pertanto possono decidere la scelta migliore e definitiva per far compiere ai loro pazienti. [Non considera] il sintomo la manifestazione superficiale di un problema profondo, nascosto, così non programma la meta in conformità a qualche idea platonica, essenziale, sul piano ultimo della vita» ma mira a «mete concrete» sul breve termine e senza soffermarsi ad indagare l’insight di un processo mentale.

Dato che le espressioni verbali esercitano «un’enorme influenza […] il problema non è come si può evitare di influenzare e di manipolare ma come tali interventi vanno intesi e usati nell’interesse» di una persona: «I rapporti umani, in senso lato, offrono un terreno fertile al paradosso che può sorgervi facilmente e involontariamente mentre si cerca di superare una difficoltà. Poiché ci sentiamo reali nella misura in cui le persone che stimiamo confermano o ratificano l’immagine che abbiamo di noi, potrebbe aversi un rapporto umano immune da paradossi solo in un caso puramente ideale. L’elemento di collusione è di solito sempre presente in misura maggiore o minore e assume la forma di un accordo: tu sii questo per me, io per te sarò così e così».

Nel romanzo Il collezionista John Fowles – Watzlawick scova continuamente una aneddotica buona per la vita quotidiana all’interno dell’arte di finzione –  si racconta di un uomo che rapisce una donna per provare a farla innamorare di lui. Finché non la sa innamorata non può lasciarla libera, anche per le ovvie conseguenze penali cui il soggetto andrebbe incontro; tuttavia la donna si dice innamorata per poter essere libera e fuggire da lui «ogni mossa che ognuno dei due compie è sempre una sorta di cambiamento1 e in tal modo consolida e crea una situazione senza via d’uscita».

Quindi l’uscita non è possibile all’interno di un sistema: «La nostra esperienza del mondo consiste nell’ordinare in classi gli oggetti che percepiamo. Tali classi sono costrutti mentali e perciò di un ordine di realtà completamente diverso da quello degli oggetti stessi. Le classi sono formate non solo in base alle proprietà fisiche degli oggetti, ma soprattutto in base al significato e al valore che hanno per noi». 

Riprendendo la teoria dei gruppi per poi piegarla alla vita umana, Watzlawick ricorda che un gruppo
a) è l’insieme di elementi di qualsiasi natura ma aventi tutti una caratteristica comune
b) combinando gli elementi di un gruppo in sequenze varianti, il risultato che si ottiene dalla combinazione resta lo stesso
c) un gruppo contiene un elementi di identità che composto con ogni altro elemento del gruppo lo lascia immutato. Per esempio nei gruppi in cui la legge di composizione è l’addizione, l’elemento di identità è lo zero (per es; 5+0=5)
d) Ogni elemento del gruppo deve avere il reciproco o inverso che composto con l’elemento stesso dà l’elemento di identità; per esempio: 5 + (-5) = 0 dove la legge di composizione è l’addizione

L’importanza del punto c) «è stata dimostrata da Ashby per i sistemi cibernetici, nei quali ciò che egli definisce la non-funzione del gruppo di cambiamenti parametrici gioca un ruolo diretto nel mantenimento della stabilità di tali sistemi» rovesciando così uno strumento che voleva emulare la vita in un uno se non per comprenderla per poterla gestire meglio.

«È quanto mai necessario che il terapeuta sappia parlare il ‘linguaggio’ del paziente. A chi lavora con i calcolatori si può quindi spiegare che è stato prescelto quel comportamento per passare da una retroazione negativa a una positiva. A un soggetto che ritiene che il suo problema dipenda dal poco amor proprio, si può dire che il comportamento prescritto è uno dei modi migliore per appagare il bisogno di autopunirsi da cui è evidentemente perseguitato» e via così.

Dato che «il linguaggio naturale, purtroppo, rende spesso difficile distinguere chiaramente tra elemento e classe» bisogna sottolineare che qualunque cosa presupponga tutti gli elementi di una collezione non deve essere un termine della collezione, così come chiarito da Whitehead e Russell nei Principia Mathematica, quindi «il genere umano è la classe di tutti gli individui ma non è esso stesso un individuo» e il celebre paradosso del cretese mentitore è facilmente risolvibile se la frase “io mento sempre” non è contenuta nel gruppo di frasi che può dire il cretese ma è l’etichetta che denomina l’intera classe.

Watzlawick definisce cambiamento1 il cambiamento all’interno di un gruppo di elementi mentre cambiamento2 «il cambiamento di un cambiamento», cioè il passaggio da un sistema ad un altro. Quest’ultimo cambiamento «il cambiamento2 è introdotto nel sistema dall’esterno e quindi non appare famigliare né è comprensibile».

Tutti i cambiamenti che avvengono all’interno di un gruppo; e per analogia in una classificazione mentale, non sono veri cambiamenti se non che di facciata:
Sostituire qualcosa col suo contrario stagna le situazioni umane anche se di primo acchito risulta il tentativo più immediato di risoluzione tuttavia «Le ragioni dell’insuccesso non vanno cercate nell’impossibilità del compito, ma piuttosto nella soluzione adottata per risolverlo» il proverbio popolare francese plus ça change plus c’est la meme chose sintetizza bene il fenomeno. «Questa strana interdipendenza dagli opposti era già nota a Eraclito, il grande filosofo del cambiamento, che la definì enantiodromia. Il concetto fu ripreso da C. G. Jung che vide in esso un meccanismo psichico di fondamentale importanza: Ogni estremo psicologico contiene celato in sé il suo opposto o sta in qualche modo in rapporto intimo ed essenziale con questo». Per questo nell’induismo la dea Kali è una divinità che assieme crea e distrugge.

Alimentare qualcosa mentre le condizioni esterne potrebbero farla scemare è un’altra pratica di stagnazione. Immaginando di addentrarsi in un inverno via via più freddo «il cambiamento [tenere adeguatamente calda la casa] diventa necessario per ristabilire la norma perché sono i gioco sia il benessere che la sopravvivenza», anche questa evidente pratica di “retroazione” per mantenere stabile un sistema può rivelarsi un processo di stagnazione, aggravato dal fatto che nella vita reale i problemi sono scalabili e aumentano nel tempo.

Infine negare ci sia un problema ovvero «mettere la testa sotto la sabbia» è incredibilmente un gettonatissimo modo per affrontare un problema, per quanto scarsamente appagante, il fatto è «gran parte del processo di socializzazione consiste nell’insegnare ai giovani ciò che  devono vedere, sentire, pensare, provare o dire […] Tra le ragioni che spingono a negare i problemi è probabile che ci sia anzitutto il bisogno di mantenere una facciata sociale accettabile».

Come ha riassunto lo psichiatra scozzese Roland Laing coloro che nascondono una evidenza «Giocano ad un gioco. Giocano a non giocare un gioco. Se gli dimostrerò di vedere che lo stanno giocando, infrangerò le regole e mi puniranno. Devo giocare il gioco di non vedere che gioco il gioco». E ancor più insidioso quando non solo si nega un problema ma si nega di negare

In termini di teoria dei gruppi una siffatta semplificazione, ovvero abbassare la testa di fronte un problema «soddisfa il concetto di elemento di identità (la terza proprietà dei gruppi) in quanto la sua introduzione in un problema già esistente ne conserva l’identità, cioè lascia il problema immutato» diventando più acuti.

Insomma l’utopista vede una soluzione dove non c’è, preferendo rinviare privilegiando «il viaggio, non l’arrivo» il nevrotico – per dirla con lo psicologo Alfred Adler – ha un programma di vita che «richiede categoricamente l’esenzione da ogni responsabilità dei suoi eventuali fallimenti personali, di cui sono imputabili soltanto gli altri» mentre l’attività del paranoico «ha caratteri molto aggressivi. Il paziente che attivamente conduce per porsi su un piano di assoluta superiorità sorgono sempre quando il paziente vuole qualcosa senza che gli siano poste condizioni ma al tempo stesso senza che gli vengano addossate responsabilità di sorta»

Si trovano esempi di basi che costringono ad una stagnazione anche nella vita comune, non patologica. «Voglio che lui voglia fare le cose» dice una madre invece che fare una richiesta semplice al figlio come voglio che tu faccia X. Quasi come una dittatura dove «Non basta sopportare la coercizione, si deve volerla». In questi casi «Il paradosso sorge dalla riflessività dell’asserzione, cioè dalla confusione di membro e classe» finché cambia il linguaggio e non la naturale indole di chi parla.

Cambiamento2 invece è il passaggio da un sistema ad un altro, si verifica sovente in modo spontaneo, ad esempio una bambina che piange quando la madre la lascia a scuola ma smette di piangere quando ad accompagnarla è il padre; oppure un agorafobico che tenta il suicidio su un monte e si accorge di esser finalmente uscito di casa rinunciando all’idea di farsi fuori. A volte invece, oramai ingarbugliati nel proprio immutabile sistema di valori, si rende necessario il consulto di un terapeuta. E qui entra prepotentemente in scena la soluzione come paradosso:

Consigliare ad un insonne di non chiudere gli occhi finché non arriva il sonno porta «un cambiamento al metalivello in cui i tentativi controproducenti del soggetto di risolvere il problema hanno generato il suo paradosso “Sii spontaneo!”»

In breve «un evento (a) sta per verificarsi, ma a è indesiderabile. Il senso comune suggerisce di evitarlo, o di impedire che si verifichi, con un comportamento che sia il suo reciproco o inverso, cioè con non-a (in accordo con la proprietà d dei gruppi) ma questa scelta non può sfociare che in una soluzione di cambiamento1. Finché la soluzione viene cercata dentro la dicotomia di a e non-a, chi cerca è preso in una illusione di alternative e vi resta impigliato» perpetuando il dilemma rendendo impossibile uscire. Il cambiamento2 è tutto lì, «non a ma anche non non-a».

«La prescrizione del sintomo, oppure il cambiamento prodotto ricorrendo al paradosso, è indubbiamente la forma più efficace ed elegante che conosciamo di soluzione dei problemi».



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